Grazie ad Haim, grande guida!

Una storia di amore e di tenebra

Uscivamo di casa dopo pranzo, nell’ora in cui la città si chiudeva dietro le imposte e sprofondava tutta nel sonno del sabato pomeriggio, e un silenzio perfetto calava sulle strade, nei cortili, fra gli edifici di pietra con le tettoie di lamiera, applicate davanti. Come se tutta Gerusalemme fosse stata travasata dentro una bolla di vetro trasparente.

Attraversavamo via Gheulla, entravamo nel labirinto di vicoli della scalcinata cittadella ultraortodossa, sulla salita del quartiere Akwah, passando sotto i fili della biancheria carichi di bucato nero, giallo e bianco, fra le ringhiere di ferro arrugginito di squallidi terrazzi e scheletriche scale esterne, ci arrampicavamo su per Zikhron Moshe sempre avvolto nei fumi di povere pietanze ashkenazite, cholent e bortsch, soffritti d’aglio e cipolle e cavolo acido, e proseguivamo, attraversando via dei Profeti.

Non si vedeva anima viva, nei cortili di Gerusalemme, alle due del sabato pomeriggio.

Da via dei Profeti svoltavamo giù in via Strauss, dove dimorava l’eterna frescura degli antichi cipressi, all’ombra di due muri, l’uno di pietra grigia e vegetata dell’ospedale protestante delle diaconesse e l’altro la cinta massiccia e malinconica dell’ospedale ebraico di Biqqur Olim con i simboli delle 12 tribù incisi nel maestoso portone di bronzo. Un eco d’odore – medicine da vecchi e forte soluzione di lisolo – sprigionava va fuori dagli ospedali.

Poi attraversavamo via Giaffa, nei pressi di un famoso negozio d’abbigliamento chiamato Mein Staub, ci fermavamo un istante davanti alla vetrina della libreria Achiasaf perché papà si lustrasse la vista con le nuove uscite.

Proseguivamo percorrendo tutta via King George, fra negozi lussuosi e caffè con i lampadari alti e ricche imprese, tutto era vuoto e chiuso per via del Sabato, ma le loro vetrine ci attiravano; dietro le grate di ferro, ammiccavano con le lusinghe di altri mondi, bagliori di continenti remoti, aromi di città illuminate, frenetiche, di quartieri adagiati sulle rive di grandi fiumi, signore belle ed eleganti e posati signori raffinati e abbienti, che non vivevano fra decreti e persecuzioni e non conoscevano la penuria, erano anzi liberi dalle preoccupazioni economiche, liberi dalle regole dei pionieri e dei volontari, liberi dalle contribuzioni sociali, beati nelle loro belle case con i camini che spuntavano fra le tegole, o in spaziosi appartamenti dentro stabili di lusso, case foderate di tappeti, con portieri in uniforme blu e lift boys in rosso, e cameriere e cuoche e istitutrici e maggiordomi che lavoravano per loro, mentre i signori e le signore si godevano il loro mondo. Non come qui. Qui, in via King George e anche nella crucca Rechavia e nella ricca greco-araba Talbiyeh, dimorava un silenzio diverso, che non somigliava affatto a quello religioso dei sabati pomeriggio nei quartieri ashk enaziti ortodossi e trasandati: un silenzio diverso, conturbante, impregnato di segretezza, calava su via King George, che alle due e mezzo del sabato era deserta: un silenzio un po’ straniero, un silenzio britannico, poiché via King George – e non solo a causa del suo nome – si presentava ai miei occhi di bambino come una specie di ambasciatrice della magica Londra qual era nei film: file di case alte, edifici ufficiali che incutevano soggezione ai due lati della strada, uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, senza cortili in preda all’abbandono disseminati di rottami e spazzatura, fra una casa e l’altra, come capitava nel nostro quartiere. Qui in via King George non c’erano balconi sbriciolati e nemmeno persiane rotte sulle finestre, schiuse come una bocca sdentata di vecchio, finestre povere dietro le quali il passante scorgeva i miseri interni delle case, cuscini rattoppati, stracci variopinti, un’accozzaglia di mobili, padelle affumicate, stoviglie di coccio ammuffite, pentole smaltate, alte, e barattoli e lattine arrugginite. Sui due lati della strada c’era qui una facciata continua, incravattata, discreta ma con una certa arroganza, porte e cornicioni e finestre con tende di pizzo che mormoravano di ricchezza, onore, voci soffuse, tessuti pregiati, tappeti soffici, calici alti e modi sottili. Sugli ingressi c’erano targhe nere di vetro di studi d’avvocati, rappresentanti, medici, notai, procuratori e agenti di grandi industrie straniere. Passavamo davanti agli edifici del Talita Kumi (a papà piaceva spiegare il significato di quel nome, come se non l’avesse già fatto due settimane prima e due mesi prima, ma a mamma piaceva ripetergli: basta, Arieh, lo sappiamo già, vien quasi da dormire, con le tue spiegazioni).

Passavamo davanti al Bor Schiber e a casa Frumin, dove avrebbe avuto poi sede temporanea il parlamento israeliano,

Davanti a Bet ha Maalot con la sua forma tondeggiante, che prometteva ai suoi visitatori le seduzioni rigorose di una bellezza essenziale, una bellezza un po’ teutonica, ci fermavamo un momento a osservare le mura della Città Vecchia da dietro il cimitero musulmano Mamila, acceleravamo il passo (già un quarto alle tre! E la strada è ancora lunga!), passavamo davanti alla sinagoga Ieshurun, davanti all’ampio semicerchio degli edifici dell’Agenzia ebraica (papà commentava sottovoce, come svelandomi un segreto di stato, e con un timore reverenziale cantilenato: “Qui sta il nostro governo, il dottor Weizmann, Kaplan, Shertok e a volte anche David Ben Gurion. Qui batte il cuore dell’autonomia ebraica. Peccato che non sia un governo nazionale più autorevole!” e aggiungeva spiegandomi che cosa era un “governo ombra”, e cosa sarebbe successo, fra poco, da noi qui, quando finalmente gli inglesi se ne fossero andati, “nel bene e nel male, se ne andranno!”).

Di lì si continuava, scendendo verso Terra Santa (nell’edificio Terra Santa mio padre lavorò poi per circa dieci anni, dopo la guerra d’Indipendenza e dopo l’assedio di Gerusalemme, quando fu chiusa la strada per la sede dell’università sul Monte Scopus e anche l’emeroteca della Biblioteca nazionale trovò qui rifugio temporaneo, in un angolo del terzo piano).”

Altri luoghi

Sapevo dai libri, lo avevo visto nei film al cinema Edison (Yisha’ayahu street ) e lo sapevo anche da me, dall’aria, che dietro l’innamoramento, sull’altra faccia della medaglia, come oltre la catena dei Monti di Moab che s’intravedeva dal Monte Scopus, laggiù si estendeva un paesaggio completamente diverso, piuttosto minaccioso, che di qui non si vedeva proprio e forse era meglio così. C’era qualcosa laggiù, di annidato laggiù, qualcosa di peloso e imbarazzante, di quelle cose che sono patrimonio esclusivo del buio.

https://en.wikipedia.org/wiki/Edison_Theater_(Jerusalem)( Yisha’ayahu street

L’ingresso dell’ex cine teatro Edison, ora trasformato in un condominio di proprietà dei Satmar Hassidim, organizzazione religiosa anti sionista

Michael mio

Ci sposammo alla metà di Marzo la cerimonia fu celebrata sulla terrazza del vecchio rabbinato di via Jaffa di fronte al negozio di libri stranieri di stay maschi, era una giornata grigia nuvole minacciose si stagliavano con un cielo smorto sia Michael che suo padre indossavano un abito scuro con un fazzoletto bianco nel taschino si assomigliavano talmente che mi accadde persino di scambiarne l’uno per l’altro

Ehi la sera ci fu un party in una delle sale del convento ratisbonne 10 anni fa al tempo del nostro matrimonio la maggior parte delle aule dell’università si trovava nei conventi cristiani gli edifici dell’università sul Monte Scopus erano stati tagliati fuori dalla città al tempo della guerra d’indipendenza. La sala del convento della Lisbona dove si tenne il party era un’ampia sala antica sul soffitto ormai nero di fuliggine si intravedevano gli affreschi così rovinati che a malapena si indovinavano alcune scene della vita di Cristo della Natività della Croce dalla Natività alla crocifissione